Arturo Vermi
Bergamo 1928 -Paderno D’Adda 1988.
Dedicatosi alla pittura sin dal principio degli anni Cinquanta, forte di una formazione conseguita da autodidatta e un afflato di memoria espressionista e nordico, Arturo Vermi muove alla metà del decennio verso l’ambito informale, allora dilagante su scala internazionale, grazie alla frequentazione dell’ambiente artistico milanese, e di Brera in particolare.
È del 1956 la sua prima personale nei locali del dopolavoro Pirelli, al tempo vivace spazio espositivo delle tendenze d’avanguardia contemporanee, ma è col biennio trascorso a Parigi a partire dal 1960 che l’artista consegue la definitiva maturazione, anche grazie alla frequentazione di alcuni tra i principali ateliers doltralpe quali quelli di André Blok, Szabo e Ossip Zadkine. Nascono proprio in quel contesto le prime “Lavagne”, mentre è databile al rientro a Milano, nel 1961, la serie delle cosiddette “Lapidi”: già in quelle opere, scriverà Vermi anni più tardi, di aver sentito “la necessità di una certezza, di un credo che giustificasse la vita sul pianeta; una figura determinata, rigorosa, come un quadrato. Il quadrato era sempre la soluzione finale di ogni quadro”. È il tempo in cui con Ettore Sordini e Angelo Verga, Vermi dà vita al Gruppo del Cenobio, Agostino Ferrari, Alberto Lucia e Ugo La Pietra. Vengono alla luce proprio a partire dal biennio 1961/62 i primi “Diari”, nei quali le esperienze grafiche fatte a Parigi conducono l’artista ad “incidere delle tracce nel quadrato, dei segni, delle scritture”, per cui “il segno è interprete dello spazio, proposto anche come immagine concettuale”: segni che si ripetono con sequenze reiterate e ordinate, a scandire la superficie rettangolare della pagina pittorica. Nel 1964 Vermi risiede al Quartiere delle Botteghe di Sesto San Giovanni dove con altri artisti, fra i quali Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Lino Marzulli e Lino Tiné, lavora per trasferire nella quotidianità le esperienze artistiche. Contemporaneamente, con un contratto che lo impegna per una lunga serie di esposizioni, alla galleria Cadario in via della Spiga a Milano. Nel 1965, la frequentazione di Lucio Fontana lo conduce ad approfondire il concetto di spazio, che subito sviluppa nella propria opera: “Nel 1965”, ricorderà Vermi stesso, “cominciai un lavoro che definirei di spazio. Per spazio, ora, intendo il vuoto, lo spazio al di fuori dalla terra, lo spazio cosmico”. Ma, come l’artista confermerà in un’altra intervista, anche l’esigenza “di un respiro, di una pausa, come quando uno urla di rabbia per anni, anni e anni e si sente spossato, sfinito, distrutto. E poi la necessità di una calma, di un silenzio […] valori semplici, allo stato brado, essenziali e puri ed ecco che trovai la pagina bianca, lo spazio ma non per riempirlo, bensì per spogliarlo e lasciarvi un segno orizzontale argenteo in mezzo a un blu, oppure dei segni in mezzo a tutto il quadro vuoto e così quella serie la chiamai “Paesaggi”. Esposti poi da Cadario nel 1969, i cosiddetti “Inserti”: “costruire degli spazi con un’isola, un rettangolo in uno spazio più grande, molto più grande, con delle tracce o dei segni che cercano un approdo”. È l’inizio di un periodo fortunato, culminato coi successi critici riscossi in occasione delle mostre alla Galleria Blu di Milano, alla Rotonda della Besana e ai Piombi di Venezia, tutte del 1974.
L’anno seguente, il 1975, è pietra miliare nella vita dell’artista e nel suo lavoro: ha infatti inizio quella proposta di felicità che porterà Vermi alla redazione del primo numero di “Azzurro” (1975) e del “Manifesto del Disimpegno” (1978). Trasferitosi a Verderio, in Brianza, nel medesimo anno il Ministero della Pubblica Istruzione gli commissiona un documentario sulla sua opera da utilizzarsi quale supporto didattico per le scuole superiori.
Arturo Vermi nel 1978 riprende e amplia tematiche e concetti espressi nel “Manifesto del Disimpegno” e un secondo numero di “Azzurro” viene distribuito nel corso della Biennale di Venezia. Sempre nello stesso anno, infine, imposta quel lavoro di ornamento e rifruizione che poi confluirà nel ciclo di grandi tele “Com’era bella la Terra”. Quindi in quegli anni progetta e incide “La Sequoia”; una sorta di tavola delle leggi che l’anno successivo, nel corso di un viaggio in Egitto con Antonio Paradiso e Nanda Vigo, restituirà a Mosé sul monte Sinai. Negli anni ’80 il suo lavoro s’incentra sulla suite “I Colloqui”, che presagiscono la realizzazione della sua ultima opera: “L’Annologio”, un misuratore di tempo “più umano, più in sintonia con i nostri tempi”, come lo definì lartista; un orologio che compie un giro di un anno come la terra attorno al sole e che non suddivide la vita umana in frazioni, con i conseguenti obblighi, doveri e imposizioni. Nel maggio 1983 Vermi scrive di voler fare “solo cose belle” e non più “analizzare gli errori e gli orrori degli uomini né tramandarne la memoria”.